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Sahara

Ho tirato fuori l'album del Sahara, per rinfrescarmi la memoria. E' un grande quaderno ad anelli, con i fogli in cartoncino bianco, e vicino alle foto ci sono le mie annotazioni: date, nomi, luoghi.

Così posso ricordare che siamo partiti da Milano il 20 luglio del 78, mica male: quasi vent'anni fa, ci potrei scrivere un romanzo storico.

Ma, già che ci siamo, sarebbe meglio andare indietro ancora di qualche mese, fino alla primavera del 78, quella sera a casa di Benedetto e Jole.

Erano gli unici della compagnia già sposati, così la loro casa diventava per forza un centro gravitazionale, un posto dove andare invece del bar.

Eccoci tutti quanti inginocchiati o seduti per terra intorno alla carta ben spianata, e Benedetto che spiegava l'itinerario, minimizzava i problemi, decideva le tappe. Lui c'era già stato: Tunisia, Algeria e Marocco, aveva solo diciassette anni, uno zaino e il portafoglio bello pieno. Qualunque cosa si volesse fare, Ben l'aveva già fatta, come se avesse vissuto un'altra vita, prima, e aveva solo un paio d'anni più di noi.

Marco annuiva entusiasta, io domandavo che ci andavamo a fare nel deserto in agosto, o comunque nel deserto: a me piaceva il mare. Niente, mi fu promesso che prima e dopo ci saremmo fermati anche al mare, allora accettai - perplessa.

Ma non volevamo partire come degli sprovveduti: ci saremmo preparati a dovere. Ben aveva un vecchio furgone, ci avrebbe messo dei mobili e l'avrebbe trasformato in un camper. Noi? Be', avevamo la cinquecento di Marco, e la tenda canadese. Ah no, io non ci dormo in tenda, chissà che bestiacce strisciano da quelle parti: serpenti, scorpioni, scarafaggi immondi… E va bene, allora facciamo l'air-camping.

E cosi' fu fatto.

Marco comprò un portabarca da fissare sul tetto del cinquino, e un'asse di truciolare della misura giusta, cioè due metri per centodieci, come la tenda. Poi fabbricò quattro colonnine di ferro, da fissare al paraurti davanti e dietro, per distribuire il nostro peso. La tenda fu inchiodata al legno, con i pali già fissati e piegati da un lato. Al bisogno, bastava rizzarli in piedi e in trenta secondi la tenda era montata.

Ci procurammo un frigorifero trivalente (molto, molto piccolo), poi tre ruote di scorta, taniche per l'acqua e per la benzina, dato che avremmo dovuto percorrere dei tratti di mille chilometri senza poter fare rifornimento, e meno male che la macchina consumava poco.

E poi pezzi di ricambio, ma non chiedetemi cosa, e le toppe per aggiustare le gomme, e un sacco di viveri, fornellino, pentoline, acqua minerale, e cento - dico cento - lattine di cocacola.

Per far entrare tutto nella cinquecento togliemmo il sedile di dietro, e stivammo la roba in modo da poter prendere quello che ci serviva via via senza spostare ogni cosa. Questa soluzione insospettì i funzionari della dogana a Tunisi, che vollero compiere una ispezione accurata, scombinandoci l'inventario, in modo che per tutto il viaggio non fummo più capaci di trovare niente al momento opportuno… ma non anticipiamo.

Con noi sarebbe venuta anche Ilaria, la sorella di Ben, e tre suoi amici con una Jeep. Sul camper avrebbero viaggiato anche Walter e Giulia, in totale facevamo una bella carovana di tre macchine e dieci persone.

Ed e' così che ci immortala la prima foto dell'album, scattata dalla mamma di Jole al momento della partenza.

Ci imbarcammo a Genova sulla motonave Habib, che ci scodellò a Tunisi, e dopo avere espletato lunghissime pratiche doganali, eccoci pronti per esplorare l'Africa.

Due parole sul viaggio in traghetto, solo per menzionare che, in coda per la cena al self-service, noi ragazze avevamo adocchiato un tipo veramente notevole: alto, biondo, occhi azzurri, abbronzato, insomma, sembrava finto tanto era bello. Allora Ben, con la sua solita faccia tosta, gli si avvicinò con noncuranza e provò una frase banale in inglese - non si sa mai, sua sorella era senza fidanzato, e lui pensava sempre a tutto e a tutti.

Lo sventurato rispose.

Per farla breve Hans, così si chiamava il fenomeno, era tedesco bavarese, ed insieme a Michael, altro bel fustacchione teutonico, si proponeva di compiere un giro simile al nostro. Da quel momento la carovana si allungò di una macchina, e non erano gli ultimi che Benedetto avrebbe rimorchiato: ad un certo punto ci siamo trovati ad essere in sei mezzi e diciassette persone.

Ma eravamo a Tunisi, appena scesi dal traghetto.

Prima tappa: Monastir, accampamento notturno sul mare, bagno a mezzanotte e il giorno dopo visita al paese, che era proprio come uno si poteva immaginare: i venditori di granaglie con le grandi ceste esposte davanti alla bottega, le case imbiancate di calce, le donne quasi tutte velate, con una specie di mantello bianco che fasciava la testa come un foulard, e veniva tenuto chiuso davanti al viso con la mano. Nell'insieme pero' piuttosto turistico.

Ci spostammo quasi subito per Gabes, sempre sul mare, e ci sistemammo sulla spiaggia, ben lontano dal centro abitato, creando un campo fortificato come quelli dei pionieri del Far West. A questo punto nel gruppo si registrava il massimo delle presenze, essendosi aggiunta una coppia di Genova, Aldo e Irene, e uno strano terzetto tedesco amburghese: la bella Ullrike con i suoi due fidanzati.

Dopo il breefing, rigorosamente in inglese per accontentare tutti, decidemmo di fermarci alcuni giorni, per acclimatarci e prepararci ai trasferimenti piu' duri che sarebbero seguiti.

Una mattina - era forse l'alba - strani rumori, scalpicci e versi inquietanti attraversarono il sottile tessuto della tenda. In quel momento tutta la letteratura avventurosa sui predoni del deserto che sgozzavano gli uomini e violentavano le donne o viceversa, a seconda dei gusti, si insinuò come una gelida mano dentro i nostri sacchi a pelo. E' vero che l'unione fa la forza, ma quando Marco mise la testa fuori per capire di cosa si trattasse, un po' turbati lo eravamo.

Insomma, ottantotto cammelli con tre o quattro pastori avevano deciso che, tra la decina di chilometri di spiaggia libera di Gabes, quello era il posto giusto per stabilire il loro accampamento.

Ilaria, che come il fratello si rivelò presto assai portata per i rapporti umani, fece subito amicizia con i cammellieri, io con i cammelli, (vedi fig. 1) che per essere precisi erano dromedari, con una sola gobba, ma pareva che per loro non facesse differenza, dato che, in quel francese maccheronico con cui cercavamo di comunicare, la parola che li definiva era la stessa: camel, con l'accento sulla el.

I nostri vicini ci offrirono un assaggio di latte di dromedaria, e noi, molto cordialmente, per non offenderli accettammo, cercando di non farci notare mentre lo sputavamo disgustati.

A quel punto diventava difficile camminare nei dintorni del campo, perché non eravamo riusciti a metterci d'accordo con i ruminanti artiodattili sul luogo dove era meglio collocare la toilette, e così ci rendemmo conto che era arrivato il momento di togliere le tende.

E poi, eravamo tutti impazienti di assaggiare il deserto.

Leggo sull'album: 27 luglio, traversata del lago salato Chott el Djerid.

L'effetto era abbastanza spettacolare: una strada, ma che dico, poco piu' che un sentiero sterrato tagliava in due una distesa bianchissima, sembrava neve, però la temperatura esterna era 50° centigradi all'ombra. La nostra, visto che tutt'intorno era piatto come il mare.

Il caldo era una presenza tangibile, oserei dire corporea. Non si poteva toccare la carrozzeria della macchina, nemmeno all'interno, senza il rischio di ustionarsi. Bisognava tenere i finestrini chiusi, perché altrimenti entrava nell'abitacolo una ventata bollente, come quando si apre lo sportello di un forno per controllare la cottura della torta. Ma era così secco, che non ci sembrava neanche di sudare. Era come se avessimo un febbrone, ma senza aspirine a disposizione. La sensazione non era neanche troppo spiacevole, salvo che non ci rendevamo conto di quanto stavamo bevendo: otto, dieci litri a testa al giorno. La sete non si riusciva a placare, e l'acqua calda che ingurgitavamo non alleviava l'arsura. Di mangiare poi non se ne parlava neanche: sforzandoci al massimo riuscivamo a mandar giù mezza lattina di Simmentall, giusto perche' era stata in frigo, e invece che a 50 gradi era forse a trentacinque.

In queste condizioni affrontammo la frontiera tra Tunisia e Algeria. Non so se é ancora così, ma a quel tempo la mole di questionari da compilare era equivalente alle schede del censimento. Da sottolineare la cortese disponibilità dei funzionari in quell'avamposto dell'inferno: era periodo di Ramadam, e come si sa, non potevano ne' mangiare ne' bere dall'alba al tramonto, circostanza che li rendeva se possibile ancora più espansivi.… fatto sta che per ogni virgola mancante ci rimandavano indietro con una eloquente alzata di sopracciglio. C'eravamo solo noi, alla dogana, ed impiegammo tre ore per sbrigare quelle semplici pratiche.

Come Allah volle, arrivammo all'Oasi di Ghardaia.

Si sa che il deserto reclama il suo tributo, e quando il gioco si fa duro… dopo una estenuante discussione, il gruppo tristemente prese atto dell'entità dell'impresa che ci stavamo accingendo a compiere, e tutti quelli che non si erano adeguatamente preparati furono costretti a mollare.

Contati i superstiti, ridistribuiti gli equipaggi, io e Marco, Ben, Jole, Ilaria e Walter, più gli inossidabili Hans e Michael puntammo ulteriormente a Sud, tutti gli altri si dispersero nel tentativo di raggiungere la riva del mare. Di loro non abbiamo saputo piu' nulla.

Hans e Michael si erano preparati bene, invece. Cibo, acqua, ricambi per l'auto, ma non solo: avevano pale, picconi e persino le piastre per la sabbia, utilissime in caso l'auto si fosse impantanata. Noi veramente non avevamo contemplato questa eventualità, visto che la strada fino a Tamanrasset avrebbe dovuto essere tutta asfaltata, ma loro, con insolita autoironia, sorridendo dicevano "Germans are always well organized!". Non male per due ragazzini di diciotto anni… anzi, Hans non li aveva nemmeno compiuti, e non aveva la patente, sebbene desse regolarmente il cambio alla guida, almeno fuori dai centri abitati.

Troppo giovani? Anche noi lo eravamo.

Il 31 luglio compivo ventiquattro anni, e li festeggiammo a El Golea, oasi lussureggiante di palme da dattero, in una specie di campeggio dove ci eravamo fermati a rifocillarci, prima dell'ultimo tratto desertico che ci separava dalla nostra meta. Sarà stato il caldo, o la stanchezza, o gli scorpioni (ne avevamo trovato uno grosso come il mio dito, e lungo almeno 20 cm), ma eravamo tutti un po' nervosi. Fino a quel momento Benedetto era stato leader indiscusso per acclamazione: a parte il fatto che conosceva il posto, ci sapeva fare con le persone, e riusciva sempre ad essere convincente, o almeno suadente. Le sue proposte sembravano ragionevoli, come non seguirlo? Sarà stato perché era portato per i rapporti umani, o forse perché studiava da avvocato… comunque Marco si sentiva sempre un po' in competizione con lui, e questo provocava dei mugugni inespressi che, alle condizioni estreme alle quali eravamo sottoposti, si riversavano nella nostra coppia. Così passai la sera del mio compleanno a piangere.

Non mi ricordo in particolare i motivi di dissidio, probabilmente sciocchezze, esasperate dal caldo e dalla fatica. Eravamo una comitiva piuttosto eterogenea: alla partenza noi conoscevamo solo Ben e Jole, avevamo già fatto delle vacanze insieme e andavamo abbastanza d'accordo, ma comunque ognuno faceva per se'. Per esempio, i pasti venivano consumati insieme, ma ognuno mangiava la sua roba: salvo qualche rara volta, non abbiamo mai cucinato per tutti.

Nei trasferimenti, il posto di capofila, molto piu' impegnativo, specialmente di notte, era occupato a turno da una delle auto. La strada era asfaltata, però spesso montagne di sabbia a causa del vento invadevano la carreggiata, e bisognava evitarle per non restare impantanati. Mi ricordo di una sera, partiti a mezzanotte dopo aver cenato abbondantemente (e bevuto altrettanto), ero di turno alla guida, e toccava a noi stare davanti. Dopo duecento metri mi trovai incastrata in una duna di sabbia enorme, e ridevo come un'oca senza riuscire a scendere dalla macchina. (Marco aveva appena finito di dirmi di stare attenta…) Hanno sollevato di peso la cinquecento con me dentro, con grande imbarazzo di Marco.

A lui seccava se io davo ragione a Benedetto, o se per caso restavamo indietro e dovevamo essere aspettati, o se non riuscivamo a rapportarci in modo perfetto al gruppo. Si può capire: non voleva mettersi in condizione di essere criticato, e non voleva essere da meno. La competizione esisteva, non posso negarlo, ma io la vedevo in modo diverso, cercavo di sottolineare la collaborazione e l'amicizia, mi intenerivo all'idea che ognuno di noi avrebbe fatto qualsiasi cosa per salvare gli altri da una situazione pericolosa. Anche tra le ragazze c'era una certa rivalità, ma molto piu' subdola, e io non me ne rendevo conto. Alle volte ci rimanevo male, perché Jole elogiava in modo esagerato la cognata, e io mi sentivo sminuita, ma non capivo perché. Ci sono voluti anni e anni prima che mettessi su una crosta adeguata, ma questa e' tutta un'altra storia.

Arrivò il momento dell'ultimo balzo: fin qui ragazzi abbiamo scherzato, nelle oasi non si stava poi tanto male, e con quel secco, 40° erano sopportabilissimi. Da El Golea a Tamanrasset ci sono più di 1700 km, ed una sola città intermedia, si chiama Ain Salah ed è la città più calda del mondo. Decidemmo quindi di fermarci il meno possibile, per arrivare al piu' presto sull'altipiano dell'Hoggar, 1000 metri sul livello del mare, dove le temperature si presupponevano meno proibitive.

Nel frattempo avevamo scoperto qualche trucchetto, che ci permetteva di sopravvivere durante questi lunghi trasferimenti. Ben presto abbiamo smesso di andare in giro seminudi, a parte l'impatto psicologico con la cultura locale, che all'inizio avevamo sottovaluto, coprirsi ci riparava dal caldo. Per evitare di bere in continuazione, ci bagnavamo i vestiti. Mentre uno guidava, l'altro gli rovesciava in testa un paio di bicchieri d'acqua. Bisognava stare attenti, perche' a temperatura ambiente scottava, così la facevamo scendere piano piano, e per qualche minuto eravamo a posto. I capelli e la camicia si asciugavano in dieci minuti, i jeans duravano anche un quarto d'ora, poi si ricominciava.

Un altro vantaggio dell'acqua calda a volontà era che si poteva fare il caffè mentre si andava: con il nescafè e due cucchiaini di zucchero ci tenevamo su, senza doverci fermare troppo spesso. Del resto la velocità di crociera era piuttosto bassa, circa 60 km/ora: la strada era brutta, le invasioni di sabbia frequenti, e col sovraccarico che avevamo bisognava evitare di far surriscaldare i motori.

Solo al ritorno abbiamo pensato di rinfrescare l'acqua da bere con l'effetto "ghirba". Infilavamo la bottiglia in una calza, che tenevamo costantemente bagnata: l'intensa evaporazione raffreddava l'acqua rapidamente, e la soluzione era più efficace del frigo, che a batteria o a gas non rendeva molto, e poi era così piccolo che ci stavano giusto due lattine e quattro scatolette di carne.

Ain Salah era calda come previsto, e il termometro arrivò a segnare 63°, questo perché è nel centro di una conca desertica, che come il fuoco di un paraboloide attira i raggi del sole, senza poterli dissipare in nessun modo. Ci fermammo a dormire alcune ore, non si riusciva nemmeno a stare nella tenda, così ci sdraiammo sul tetto della macchina, direttamente sotto le stelle. E' vero, come dicono, che l'escursione termica tra il giorno e la notte è notevole, però quindici o venti gradi in meno ti portano a 45°, anche se si sta un po' meglio, non si dorme mica tanto bene, e di certo non si soffre il freddo.

Dopo un'altra giornata di marcia, arrivammo alle porte di Tamanrasset che era già notte. Ancora capofila noi, ci trovammo improvvisamente davanti una serie di barili che sbarravano la strada, con sopra delle fiaccole accese, e si sentiva in lontananza uno strano rullare ritmico, come se fusti di metallo fossero percossi con un bastone.

Porco giuda, i predoni del deserto.

Ho iniziato a tremare e a battere i denti. Non avevamo il coraggio di scendere dalla macchina. Dietro di noi i due tedeschi che ci seguivano a ruota, e di Benedetto neanche l'ombra. Michael si avvicinò e ci bussò nel finestrino. Per ora non si vedeva in giro nessun altro, e ci decidemmo a scendere anche noi, con grande circospezione. Il suono cupo dei tamburi sembrava avvicinarsi, sinistro. Stavo per avere una crisi di nervi, quando vidi Hans ritornare a piedi dalla strada interrotta, e sembrava sano e salvo. Di predoni per ora non ce n'erano, così gli andammo incontro ansiosi.

Be', era successo che il giorno prima aveva piovuto, e la strada, due centimetri di asfalto appoggiati direttamente sopra la sabbia, era crollata per un bel tratto, circa cento metri, formando un improvviso strapiombo profondo un paio di metri. Per questo qualcuno aveva improvvisato quella barricata, per evitare che le macchine ci finissero dentro. Cinque minuti dopo arrivarono anche gli altri, e incominciò a piovere. Ragazzi, nessuno ci voleva credere: eravamo nel deserto del Sahara in agosto, e pioveva. Ci spostammo dal centro della strada, e organizzammo un campo per la notte. Poco più in là c'era un accampamento di Tuareg, gli uomini blu, e così scoprimmo anche l'origine di quei colpi di tamburo, che tanto avevano fatto per terrorizzarmi. Faceva quasi fresco, eravamo già sull'altopiano, e questa sosta imprevista ci rese tutti euforici. La mattina dopo ci spostammo sulla pista, che fino all'anno prima era l'unica via di comunicazione per Tamanrasset, e con estrema cautela attraversammo la valletta che si era creata con la piena. Alle dieci di mattina del 2 agosto incontrammo il cartello: eravamo arrivati.

Il paese ricordava quei vecchi film della legione straniera, poche case, strade sabbiose, c'era anche un supermercato, ma faceva una tristezza, con quei i banconi vuoti e la polvere che ricopriva tutto, ci mancavano solo i soldati in divisa caki con il berretto circondato dal velo, tipo Laurence d'Arabia.

C'era una specie di villaggio turistico, con dei bungalow fatti di cannette, ne affittammo due e ci trasportammo tutte le nostre masserizie. Ci saremmo fermati qualche giorno, c'erano parecchie escursioni da fare nei dintorni, ed era meglio alleggerire le macchine da tutto il peso non strettamente indispensabile.

Ogni giorno venivano da noi dei ragazzotti, chiedendo se avevamo qualcosa da vendere. In quel posto dimenticato da Dio avevano fame di qualsiasi cosa che ricordasse lontanamente la civiltà, per esempio jeans, o abiti, occhiali, qualunque cosa. C'era chi si era pagato il viaggio, con quella mercanzia. Noi avevamo portato lo stretto indispensabile, quindi di affari non ne abbiamo fatti molti: tuttalpiù scambi con rose del deserto o fossili. Facevamo a gara a chi si accaparrava i pezzi migliori: una volta avevamo dato appuntamento a dei ragazzini che ci dovevano portare dei fossili, e appena li abbiamo visti arrivare gli siamo corsi incontro con tale foga, per essere i primi a scegliere, che questi si sono spaventati e sono scappati. Questa era l'innocente competizione che aleggiava costantemente tra di noi, oggi mi fa sorridere al pensiero, ma allora la prendevamo seriamente, come ogni bambino deve giustamente fare con un gioco.

Benedetto riusciva sempre a fare amicizia, e trovava qualcuno che ci guidava dove c'erano le rose del deserto, o i fossili che cercavamo con grande energia, perché era una vera e propria gara. Anche se al ritorno ne ho regalati molti, ho ancora qualche decina di chili di quei reperti, a testimoniare il mio impegno…

Ma la gita più ostica, circa 60 km di fuoristrada, era quella per l'eremo di Padre Foucolt, nel cuore del cuore del deserto: sul massiccio dell'Asekrem.

Sbarcammo tutto quello che non era indispensabile, e ci incamminammo di buon ora sulla pista sassosa. Dopo una ventina di chilometri di tolondule', un effetto creato dal passaggio dei camion che rendeva il fondo stradale come cartone ondulato, ma durissimo, si cominciò a salire. L'espressione "andare a passo d'uomo" acquistava un significato letterale: ogni pochi metri bisognava scendere per controllare il percorso migliore, i sassi e macigni che costituivano la strada erano sempre più grandi, ad un certo punto abbiamo anche bucato una gomma.

Comunque arrivammo ai piedi del picco dove si abbarbicava l'eremo, e parcheggiate le auto, salimmo a piedi l'ultimo tratto. La visuale da lassù era mozzafiato (non solo per la salita…).

Chilometri e chilometri di deserto si allargavano sotto di noi, non un albero, nemmeno un arbusto, non una casa, o un manufatto. Niente. Tutt'intorno solo sassi e sabbia, fino all'infinito. Ho provato molte volte a trovarmi in mezzo al mare, su una piccola barca, senza vedere una terra all'orizzonte, ma la sensazione di vuoto, di nulla che scaturiva da quello spettacolo non è paragonabile a nient'altro. Forse l'oceano, non so. Eravamo tutti ammutoliti, schiacciati da quell'enormità.

Vergognandoci un po' per quell'attimo di smarrimento, entrammo nel cortile, ma chissà perché continuavamo a parlare a bassa voce. Data l'altitudine, la temperatura era piacevole, e il frate che custodiva l'eremo cordiale. Firmammo il libro degli ospiti, accettammo un the alla menta e conversammo amabilmente in francese con l'eremita, che aveva con se' solo un giovane tuaregh, avvolto nel tradizionale turbante blu chiaro, che lasciava scoperti solo gli occhi lucenti, e una mascherina di pelle nerissima, come una specie di Zorro al contrario.

Il tempo a nostra disposizione non era molto, sarebbe stato imprudente attaccare la pista con il buio, e ci mettemmo ben presto sulla via del ritorno al campo.

Era appena finita la discesa, quando bucammo di nuovo. Per alleggerire la macchina, avevamo lasciato al villaggio le altre due gomme di scorta, e per imperdonabile sbadataggine, avevamo dimenticato le toppe per riparare i copertoni, e la pompa.

Ci eravamo cacciati proprio in una bella situazione: avevamo ancora poche ore di luce, non sarebbero state sufficienti a Benedetto per arrivare al villaggio, prendere l'occorrente e tornare indietro prima di buio. Affrontare la pista di notte era fuori discussione: si faceva già fatica cosi, a capire la direzione da seguire. E non c'era nemmeno molto tempo per decidere che fare. Ogni rivalità, competizione, dissidio era sparito. La decisione giusta, se pure dolorosa, era una sola: io e Marco saremmo rimasti a passare la notte li, e gli altri sarebbero ritornati al villaggio. La mattina dopo ci avrebbero portato le ruote di scorta. Io ero abbastanza serena: avevamo la nostra tenda, cibo e acqua per due giorni, ero preparata ad aspettare pazientemente. Ma capisco perché Jole avesse le lacrime agli occhi quando mi ha abbracciata, prima di risalire sul furgone. Del resto, era perfettamente inutile che si fermassero anche loro, e noi non volevamo abbandonare l'auto.

Li guardammo partire, e quando erano spariti all'orizzonte, per consolarci aprimmo una cocacola, e brindammo alla nostra prima notte, soli nel deserto vero.

Dopo una mezz'ora, vedemmo avvicinarsi una nuvola di polvere. Era una jeep, con una guida francese e quattro signore. Si fermò vicino a noi: stavano andando a passare la notte all'eremo, ma avevano tutto il tempo per ripararci la gomma. Non avevamo dovuto nemmeno chiedere aiuto, perché Benedetto, che li aveva incontrati poco prima, aveva già spiegato la situazione. Il passaggio di veicoli da quelle parti era così poco frequente, che quando si incontrava qualcuno, di solito ci si fermava a dire due parole. Dividemmo con piacere le ultime lattine fresche con i benvenuti salvatori, e scambiammo i soliti convenevoli con le ragazze, mentre il francese faceva tutto il lavoro.

Insomma, la nostra nottatina romantica fu rimandata ad altra occasione, e non era del tutto buio quando entrammo a Tamanraset, festeggiati dai nostri come eroi.

Ci fermammo ancora qualche giorno, prima di deciderci a tornare indietro. Oramai avevamo capito come affrontare le asperità della natura, anche se, per me, rimaneva misteriosa l'essenza della cultura araba, il loro modo di fare. Si presentavano a noi con quella specie di francese, tenendo le braccia lungo i fianchi, muovendo il minimo possibile perfino i muscoli facciali. Sembrava che niente li potesse turbare. Lasciavano che le mosche li ricoprissero, senza un gesto di impazienza, chiudendo appena le palpebre se entravano negli occhi. Era come se anche il tempo prendesse la stessa misura dello spazio immenso che li circondava. Per qualsiasi interazione che ci portasse in contatto con loro, come per esempio pagare il conto del villaggio, bisognava armarsi di una pazienza infinita, adeguarsi ai loro ritmi, aspettare la loro lentezza, le lunghe pause, i gesti misurati, direi quasi risparmiati.

Le donne non si vedevano, e quelle poche, erano velate. Unica eccezione, le Tuaregh, molto scure di pelle, alte e belle, portavano gioielli d'oro alle braccia e alle caviglie. Ma le abbiamo incontrate solo una volta, e fuori dal centro abitato.

Vi risparmio i particolari del ritorno, che ripercorreva la stessa strada gia' descritta.

Passati senza problemi i 1700 chilometri di deserto, ci fermammo ancora all'oasi di Ghardaia dove, sempre per merito degli intrallazzi di Benedetto, fummo invitati tutti quanti nella casa di una famiglia. Erano benestanti, si poteva capire dalla televisione accesa, appoggiata sull'unico mobile dell'appartamento. Per il resto c'erano solo tappeti, anzi stuoie, con sopra dei materassi. Nel cortile interno era montato un telaio a mano, dove la giovane moglie annodava tappeti. Il nostro ospite, Brahim, aveva un furgone, con cui trasportava la sabbia del deserto nei cantieri, e questo gli consentiva un buon tenore di vita, salvo il problema di reperire i pezzi di ricambio per il camion, che da quelle parti erano merce rarissima. La moglie si mostrò a noi senza il velo, che da quelle parti era obbligatorio per uscire di casa. Noi europee spesso venivamo additate, e a volte insultate, per esserne sprovviste. E pensare che i primi giorni andavamo in giro in calzoncini corti, o addirittura in costume. Persino dentro il villaggio turistico di Tamanrasset il due-pezzi era disdicevole, e l'anziano gestore pregò Marco di far coprire la sua donna, perché la vista di tanta nudità lo metteva di per sé in peccato mortale. Rivolgersi direttamente a me? Neanche parlarne…

Mangiammo il cus-cus fatto in casa, tutti seduti per terra, sulle stuoie. Il cibo era servito in grandi catini di smalto, dai quali attingevano con le mani vari commensali. Ognuno scavava un buchetto nel cus-cus, dalla sua parte, e ci appoggiava dentro dei pezzi di carne di pecora, o capra, dal sapore molto forte, che erano serviti a parte. Se non altro non c'erano i piatti da lavare, alla fine!

E poi c'era la cerimonia del the alla menta. Fortissimo, verde scuro, e molto dolce, veniva servito dentro bicchierini come quelli da liquore. Non sapeva proprio di the, ma era abbastanza buono.

Avevamo intenzione di finire la vacanza sul mare, come da promessa, e questo ci porto' su un percorso leggermente diverso, per consentirci di fare una breve tappa ad Algeri.

Prendemmo delle camere in un albergo, ma passammo quasi tutta la notte a far la guardia alle macchine, dato che i ladri erano assai rinomati. Infatti, nei brevi attimi in cui ci siamo riuniti per decidere il da farsi, hanno rubato qualcosa dall'auto di certi francesi appena conosciuti.

Poi al mare ci siamo andati davvero, in un bel campeggio a Tabarca, in Tunisia. E su quella settimana si potrebbe scrivere un'altra storia.